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"Quando mi trovo davanti alla pittura di Fautrier, la felicità che s'impossessa dei miei occhi è tale che certo non penso più a ragioni, né a scuole, né ad altro che questa pittura possa suggerire". Sono parole scritte da Ungaretti nel 1960. Qualcosa di simile provo io, che non sono Ungaretti, davanti ai quadri di Fabio Morini, il quale, a differenza di Fautrier, è un pittore gagliardamente figurativo. Non che ragioni, e scuole, e altro, manchino a Morini, che ha venticinque anni di crescita artistica alle spalle, ha l'Accademia, le mostre personali, i riconoscimenti, i giornali. Anzi, questa situazione "a monte", densa e articolata, tiene innescati di perpetuo gli estri ed i soprassalti di un uomo aguzzo, di un "faber" a colori che resiste sul crinale alto della sua fantasia. L'ispirazione a una originaria naturalità umana sembra sollecitare il suo immaginario. In questo villaggio globale che è diventato il mondo dell'arte, Morini insegna la grande audacia di essere semplici, del fare schietto, sottoponendo la narrazione pittorica ad una sottrazione purificatrice. Dentro la libertà dei temperamenti e delle convinzioni individuali, egli ricompagina e celebra valori dispersi e umiliati, come per un "memento", per appello di fedeltà a se stesso. Allora, inseguito da scie di lontani lucori, il quadro lievita, si aderge, si trasforma in un'equivalenza di rigori conclusi, definitivi, e addirittura aristocratici. La realtà di un artista è ondivaga, formicolante, inafferrabile: egli convive in intimità segrete col mistero. Ma sorprende, di Morini, questa capacità dominata di far cagliare la forma senza sbavature, senza compiacimenti, e senza uscite di registro, pur nell'intensificazione dell'urgenza espressiva. "Armonia piena di beatitudine verista", buttava lì Apollinaire, a proposito di Derain. La quale tien conto di una sintesi culturale, esistenziale e tecnica che aizza si l'acume, ma non abbandona quella precisione profonda, inesplicabile, vitale, che è invece propria dei grandi pittori d'istinto e di materia. Vale per Morini, in termini di violentissima vicinanza e complicità. Più Courbet che Cèzane, se vogliamo. O più Monet, di cui Morini condivide la studiosa attenzione per la modulata tessitura cromatico-luminosa. Direi crepitante, di una pittura come questa, è facile: un fuoco che arde dalla voglia di ardere. Dal fumo di un'idea escono sciami di scintille. Il quadro moltiplica la sua freschezza sorgiva, cresce, scoppiettà, e "diviene" perentoriamente, come vivendo di attimi puntiformi. Quel che appare mi soggioga. E m'inquieta insieme (cioè mi sbigottisce e m'incalza) quel colore così umido, contrito, oleoso, quello stesso che ritroveremo nel Lotto marchigiano o nel Tiziano di Ancona. Questa notazione geografica, sciroccale, relativa a regioni di cultura mittel-italiana, è puntuale, forse, anche per un Fabio Morini che è nativo di Viterbo. Egli mantiene occhi retrospettivi. Egli coltiva tenaci residui di memoria, che prolungano nel presente il suo tempo remoto, che lo confermano e lo progettano auspicabile evento futuro. Scava, ecco il verbo. Avvolto nel gioco delle ricordanze, appena avvertibile con un ronzio del tempo, egli da corso ad una passeggiata di pittura come gaia, ma silenziosa dispersione dell'io, che si lascia invadere dai colori delle città, dei borghi, delle pietre, dei selciati, dei cieli e delle lune. In questi paesaggi di malata e morbida estenuazione, in questi "frammenti medioevali" che corrispondono all'ultima felicità dell'artista, egli trova come uno spazio di antica rassegnazione, quasi di fatalità gloriosa e consegnata. Una piccola epopea, un riscatto, un grido, un allarme per così dire trasceso, universalizzato nel sentimento ancestrale, reverente, etico e sacrale, dell'infinito pietroso di una civiltà. Chi guarda un suo quadro (e tutti guardano, poiché nessuno , o quasi, resiste al flauto fascinoso dell'incantatore Morini) e ne indaga i colori, s'intrappola. Infilzato da cento emozioni, scoprirà, ora, dietro il cipiglio di un cielo luttuoso, una lunga notte assassina, fitta di presagi; ora, un'illusione di solarità diffusa e sommessa: di un sole caldo ma discreto, quasi scialbo da una segreta malinconia. E ancora scoprirà l'algore acuto della luna in un altro cielo di casto cristallo, e un verde smeraldino, soffice, pennellato d'antiche miniature. Oppure leggerà uno scabro frontespizio di casa, appena secondato dalla luce autunnale che persegue il più tenue dei grigi, o un azzurro profondo, come simbolo di lontananza irraggiungibile, o il giallo finale di una foglia, o un intero paese tonale, dischiuso, scoperchiato, come uno scrigno colorato d'ardesia. Oppure un semplice, tremendissimo, bianco. Lo diceva Racine: "Bellissimo e innocente colore, il bianco. Ma, nella sua purezza, quanti spaventi s'annidano!". Non dirò mai che Morini "si spaventi" nel colore e, dunque, nemmeno nel bianco, nemmeno in quei neri forti di cieli "in negativo", portati "alla Matisse". Secondo un superiore esercizio che indispettiva Picasso: e dico niente. E' un pittore, Morini, che si governa bene, che studia, e che non si raccqueta . Tiene in mano una misura di mondo. Ecco che ho scritto le mie mille parole, non necessarie, per Fabio Morini. Il mio animo era sgombro, il mio approccio era sincero. Ma non basta. La pittura è più eloquente delle parole, la forza degli occhi non vince il cuore dell'artista. Da sempre. "se i quadri si potessero spiegare e tradurre in parole - scriveva Gustave Courbet nel gennaio 1864 - non ci sarebbe bisogno di dipingerli". E Courbet, lo si sa, era un genio.
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