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Estratto da: Anchise Picchi. Un percorso nel Novecento da Natali a Annigoni di: Francesca Cagianelli "L'arte nasce dal mito. È mito essa stessa. Parlandoci da sempre, dagli strati meno noti dell'animo umano, come dalle oscure profondità delle grotte preistoriche dipinte, essa è li, apparentemente senza un preciso scopo (ma qual'è se c'è addirittura, l'utilità dell'universo?), a rendere più libera la nostra debole condizione di umani" - (A. Picchi).
Si ascrive a questa fase l'esecuzione di Ritratto di Ego Cecconi (1930), esemplato sui capisaldi della scultura novecentesca, venato tuttavia da una morbidezza naturalistica, che ricompare con maggior evidenza nel San Giovannino (1930-1935), esposto in seguito alla Mostra d'Arte Sacra di Padova e in Figura femminile (1935), di una classicità quest'ultima memore della levigatezza di Canova. Fondamentale risulta a questa data la conoscenza con Pietro Annigoni, avvenuta in occasione delle visite al negozio d'arte Rigacci a Firenze, dove l'artista era solito acquistare gli strumenti per la realizzazione delle sue sculture. La maturità stilistica conseguita negli anni Trenta traspare da Ritratto dell'ingegner Carlo Righi (1936), opera informata delle principali correnti del Novecento Italiano. Ritratto del nipote Lido (1940) e Testa di orientale (1943), entrambi definiti da un'astrattezza di modellato che trae potenza di espressione dalla stilizzazione programmatica dei tratti fisionomici, in sintonia con analoghe inclinazioni dei colleghi novecentisti. Nascono tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta alcune opere pittoriche, soprattutto ritratti, che, come nel caso di Ritratto di Daniela Bianchi (1957), Ritratto di Elisabetta (1964) e Ritratto di Enrico Meucci (1966), inaugurano una stagione di moderna classicità. In quest'ottica si comprende appieno l'evoluzione dell'artista da una ritrattistica di timbro descrittivo ed analitico, protrattasi nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, culminante negli episodi di Ritratto di signora con paesaggio (1969) e Ritratto maschile (1969-1970), entrambi rispondenti ad una vocazione neoquattrocentesca incentrata sui capisaldi pierfrancescani riletti questi ultimi nell'ottica iperrealista di Annigoni,verso una ritrattistica d'intonazione visionaria, basti pensare a Omaggio a Michelangelo (1972-1973) e Autoritratto (19731974), ove si attinge alla flessuosa linearità tipica delle visioni michelangiolesche, indagate da Picchi con costante dedizione, sconfinante talvolta nella ricerca minuziosa di inedite soluzioni compositive che potessero porgere al suo animo desideroso di scoperte uno spiraglio di sogno. II fascino esercitato dalla tradizione toscana pervade come si è visto, anche l'opera scultorea di Picchi , come gli sarà riconosciuto più tardi dall'amico scultore Alvio Vaglini in una delle ultime ed accorate lettere: "caro Anchise ti scrivo queste poche righe per confermarti ciò che ebbi a dirti quando mi mandasti in regalo alcune stampe a colori di opere pittoriche da te eseguite. Ne rimasi entusiasta! Le gradii molto e ti ringrazio nuovamente. Le ritengo opere ben eseguite e meritevoli di lode. Ebbi poi occasione quando venni a trovarti di vedere con piacere molte tue opere eseguite fino ad oggi. Tanto nelle figure quanto nei paesaggi, in tutte c'è tanta nobiltà, sincerità e un forte disegno. Si nota che sai anche modellare, per cui i tuoi lavori non sono superficiali ma (...) Arte di quella vera. Nelle Madonne con Bambino hai raggiunto tanta spiritualità che fanno ricordare certi affreschi fra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento. Ti faccio tante lodi, ma sono sincero in quello che ti dico. Fin da quando ero giovanissimo ebbi sempre fiducia nella tua passione per l'Arte, difatti dopo tanti anni sei arrivato con perseveranza e alacrità a farti un onorato nome nella Pittura. Io ti stimo molto! Sei l'unico amico rimastomi col quale posso parlare d'Arte ma di quella vera (...)". L'abilità quasi virtuosistica nel modellare trae la sua origine dal culto per le manifestazioni più significative della plastica quattrocentesca, basti pensare a Donatello, Brunelleschi, ma soprattutto Jacopo della Quercia, "semplice e largo", e Ghiberti, "minuto cesellatore". Non si deve poi trascurare, a completamento dell'articolato panorama delle suggestioni stilistiche avvertite dall'artista nel corso delle sue molteplici fasi di sperimentazione, il confronto, sempre in rapporto all'attività scultorea, con i cicli iconografici degli affreschi del Camposanto di Pisa, se è vero che Picchi si reca frequentemente a contemplare quest'ultimi allo scopo di assimilare le preziosità pittoriche racchiuse nelle narrazioni di Benozzo Gozzoli, trasposte con una vena di moderna classicità nella lunetta bronzea dei Putti vendemmiatori (1971). I bassorilievi Ritratto di Renato Natali (1974) e Ritratto di Pietro Annigoni (1975) devono ricondursi ciascuno ad una concezione assolutamente autonoma. La fortuna
di tali ritratti traspare del resto dalla risposta dei destinatari,
se è vero che Natali cita, come si è visto, "i
grandi maestri del Rinascimento", ed Annigoni esprime la sua
approvazione in una lettera datata 20 ottobre 1975: "Caro Anchise
, spero comunque che Lei abbia esposto il mio ritratto, anche senza
il mio consenso. La foto a colori gentilmente inviatami, è
senz'altro migliore della precedente. II volto in particolar modo
risulta ricco di forma e di espressione. Bravo". Si ascrivono
a quest'epoca San Sebastiano (1966), Crocifissione sullo sfondo di
un paesaggio roccioso (1968), oltre a Nudo femminile con velo (1964-1965).
Resta tuttavia ancora una volta Annigoni a motivare la comparsa nell'universo poetico di Picchi delle figure dei diseredati, come nel caso di Lo spaventapasseri (1973), la cui efficacia drammatica, enfatizzata dall'originalità del taglio, trae la sua ragione poetica e compositiva da Lo spaventapasseri del maestro lombardo (1946). D'ora in poi avanza nell'opera di Picchi l'irruenza di quella vena seicentista che aveva indotto anche Annigoni a prendere atto della distanza ineludibile con il movimento dei "Pittori Moderni della Realtà". La serie di nature morte realizzate da Picchi a questa fase, comprendente opere quali Canne al vento (1968-1969), Natura morta con sfondo di parete rocciosa (1966), Natura morta sul mare (1968), Composizione settecentesca (1969), ma anche scene di impronta più decorativa quali Composizione di fiori con cavalli sullo sfondo (1968), inaugura quella rivisitazione del lessico caravaggesco che l'artista seppe compiere con autonomia di linguaggio pittorico e autentica vena espressiva. Mai dismesso
del tutto, rinasce a poco a poco nell'artista il desiderio di accostarsi
in maniera più consapevole alla natura, forse anche in conseguenza
del ritorno a Collesalvetti nel 1942, data cui deve ascriversi il
consolidarsi, secondo la testimonianza dello stesso Picchi, di quella
dimestichezza di rapporti e reciprocità di scambi con Luigi
Gioli, che giunge ad invertire il corso dei suoi ragionamenti estetici. Nel 1956 apre uno studio in via della Madonna a Livorno e avvia una serrata frequentazione dei pittori labronici, primi tra tutti Renato Natali e Gino Romiti, ma anche Paulo Ghiglia, Corrado Michelozzi, Lando Landozzi, Ferruccio Rontini e Cafiero Filippelli. Con il trasferimento in Via Fiume, sempre a Livorno e in seguito in Piazza Cavour, in uno studio presso il Bar Bristol, Picchi si dedica con rinnovata foga pittorica all'indagine di nuove possibilità formali, realizzando gli incunaboli della sua cosiddetta "seconda maniera", apprezzati da Luigi Servolini che in questi anni si reca frequentemente a trovarlo, avviando con lui un rapporto di affettuosa stima, proseguito fino all'esito della mostra antologica di pittura e scultura dell'artista organizzata nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze nel 1978, dove per la prima volta compare un inquadramento storico-critico di quest'ultimo. Si motivano
in quest'ambito opere quali Girotondo in mare (1965), , Paesaggio
di Collesalvetti (1965), rilettura monumentale delle impressioni dal
vero di Mario Puccini, Mercato a Livorno (1972), Sandro che gioca
sul coppo (1975-1976), Nebbia in Fattoria (1977), una sorta di prontuario
quest'ultime delle sue più recenti sperimentazioni luminose
maturate in seno all'esperienza divisionista. L'artista sembra ormai concentrarsi definitivamente in un gioco di luci di impronta visionaria, dove la sperimentazione divisionista perde ogni accento programmatico, come nel caso di opere dedicate a soggetti di vita quotidiana trasfigurati in un'atmosfera di sogno: si pensi a Pioggia di sera (1980), ma anche Figure femminili sullo sfondo di un porticato (1985) e Maschere nel bosco (1987), fino a Natura morta (1981-1982), distante quest'ultima dal rigore disegnativo dei precedenti iperrealisti e semmai improntata alla frammentazione della pennellata, senza tuttavia presentare l'impostazione eccessivamente programmatica tipica delle avanguardie francesi. D'ora in avanti una continua ricognizione nell'ambito delle più significative vicende dell'avanguardia italiana ed europea tra Ottocento e Novecento, sostiene l'autentica ispirazione sottesa alle opere di calibro monumentale realizzate a partire dagli anni Settanta, tra le quali si distinguono L'aratura (1973), La raccolta delle olive (1973), La vendemmia (1974), Mai più la guerra (1974), La salita di Badia (1988), dove tra l'altro si consolida quel sentimento del vero che lega ormai inscindibilmente l'artista al suo territorio, Ecco che
in La Chiesa di Corea a Livorno (1979) si afferma in termini definitivi
quella fisionomia di artista intento a cimentarsi col vero, sempre
però con il supporto di un'inesauribile capacità visionaria
che si dipana secondo percorsi sentimentali del tutto autonomi, visto
che egli si attenta in quest'opera a cogliere il dramma di un'esistenza
votata al travaglio e alle difficoltà, come si evince da quella
piccola figura femminile trascinata dalla bufera, insieme con il suo
bambino, di fronte alla chiesa cittadina - una delle solite figure
`senza volto' dipinte cosi frequentemente dall'artista sull'onda del
ricordo dei manichini di Annigoni - che nella positura di schiena
nega ogni possibilità di colloquio con l'osservatore, assurgendo
a simbolo di un'umanità travolta da un destino di solitudine,
dove tuttavia si erge il baluardo di una presenza ineludibile, quello
della fede divina che si sprigiona dal profilo monumentale della chiesa
investita da una luce talmente prorompente da vincere l'oscurità
dell'aria tempestosa: un monito dell'artista a non smarrire la speranza
di una dimensione ultraterrena, ma anche e soprattutto, in termini
pittorici, un'estrema professione di fede nei confronti della primarietà
della luce nella genesi dell'opera d'arte. oppure visita il suo sito : www.anchisepicchi.com |
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